Simonetta riposa, tranquilla.
Dorme raggomitolata su un fianco, con le braccia strette intorno alle spalle.
I muscoli del viso appaiono rilassati e una ciocca di lucidi capelli neri le attraversa la guancia.
Guardando la mia donna, mi sento avvolgere da un’ondata di tenerezza
che mi fa salire le lacrime agli occhi. Dopo un po’ chiudo gli occhi pure io. Sonnecchio per quello che mi pare un lungo lasso di tempo, sbirciando ogni tanto lei che è sempre immobile. Mentre il mondo è addormentato, la natura del tempo cambia. Alcuni momenti si coagulano, altri si diluiscono. Il tempo diventa irregolare, elusivo, incerto.
A noi insonni, la notte sembra eterna, eppure troppo breve.
Rimango sdraiato a lungo, osservando le orme tremolanti che danzano sul soffitto, senza riuscire a prendere sonno né a seguire il filo dei
pensieri che mi frullano per la testa, aspettando che si faccia giorno.
Mi sento sospeso tra il buio e il tepore del corpo della mia donna.
Strane sensazioni. Mi arrovello sui miei pensieri fini a quando il
sonno non s'impadronisce di me. E mi addormento. Dormo in modo
irregolare. Sogno. In parte sono consapevole di stare sognando, in
parte sono come travolto dalle immagini. Sono sogni brutti e inquieti.
Incubi. Sogni terribili. Apro gli occhi, ma non mi pare che ciò faccia
una grande differenza. Vedo soltanto una marea indistinta. Rosa. E
allora mi rendo conto di non aver aperto gli occhi e di essere ancora
immerso nel sonno, pur contro la mia volontà. Tento di aprire gli occhi
aiutandomi con le dita, ma le palpebre sembrano incollate. Raddoppio
gli sforzi, ansimando, incapace di strapparmi dal sogno. Poi, in un
attimo, mi sveglio. I miei occhi sono spalancati, le mani tremanti
appoggiate al bordo del letto. Nella stanza la luce si sta colorando
del rosa pallido dell’alba. Simonetta, sdraiata accanto a me, dorme
pacifica. Indietreggio, sconvolto, quando gli amici affermano che la
sua mente sia un sentiero tortuoso, e la mia una piatta pianura.
Bollato come suo scudiero! Mmh...sento la bocca secca. Mi fa male la
testa. Viso e mani sono insensibili. Tento di chiamare Simonetta, ma
non riesco a farlo, e comunque non avrebbe fatto differenza, dal
momento che lei è immersa in un sonno profondo. Balzo in piedi,
rendendomi conto che ho dormito o comunque ho indugiato sui confini del regno del sonno. Ho la sensazione che le mie gambe siano rigide come pezzi di legno. Barcollando, mi dirigo verso il bagno. Accendo la luce. Accecante. Mi avvicino al lavandino. Mi spruzzo in viso. Avverto con piacere il contatto con l’acqua fresca. A questo punto, ricomincio a
sentirmi umano, per quanto debole. Vorrei camminare, con lo sguardo
fisso sulla luce del sole che si rispecchia sul mare. Una mano sulla
spalla mi risveglia da questi dolci pensieri. E’ Simonetta. “Stai bene,
Mario?” Traggo un profondo respiro. “Sì”. “E’ colpa di questa umidità
terribile e innaturale. E’ come un castigo. Secondo mia madre,
intorpidisce il cervello e brucia lo spirito, Dovresti sdraiarti e
riposare”. “No! Con questa umidità, il sonno è il peggior nemico dell’
uomo. Sogni terribili…”. Decido di farmi una passeggiata in questa
mattina di marzo. Esco. C’è nebbia. Avvolto nella foschia, il mondo mi
sembra un luogo senza confini, senza uomini. Entro in un bar. Il locale
è una piccola stanza dall’aria stantia, buia, umida e deserta. Le
strade luccicano ancora per la pioggia durata tutta la notte. Pioggia
purificatrice. Nell’aria aleggia un buon odore di pulito. La terra
riarsa del parco Pallotta è diventata morbida e scura grazie alla
pioggia. Gli alberelli del parco grondano di rugiada e il cielo ha un
colore perlaceo, opalescente come l’interno di una conchiglia. Mentre
la osservo, quella leggera patina di colore sembra evaporare e il cielo
diviene azzurro, soffuso di luce. Senza nuvole. Osservando il parco,
nota una bella ragazza che l’attraversa. Dal modo disinvolto di
guardarsi intorno, senza dare l’impressione di notare nulla, deduco che
è una abitante della zona e che ha già fatto quel percorso molte volte,
forse ogni giorno. Si ferma accanto a una panchina e la guarda,
corrugando la fronte e arricciando il naso. Mi avvicino. Mi sporco la
scarpa destra con una dei zone canina. “Possa perdere la squadra del
cuore a chi ha scambiato il parco per il WC del proprio cane”. “Ah!”
esclama lei, sollevando gli occhi verso di me con un largo sorriso.
Scoppiamo entrambi a ridere. Ha in mano una rivista. In copertina una foto del Nicaragua. Là dove molti poveri si accoppiano e generano altri
poveri. No, no, aspettate, non funziona. Non ha senso. Troppe parole,
troppe parole…Nel frattempo mi squilla il cellulare. E' Simonetta.
Decidiamo di andare a Collevecchio. Simonetta nutre la convinzione che la vita in campagna sia più sicura, più tranquilla, meno gravida di
minacce e di crimini. E’ particolarmente sentimentale: per lei la vita
in campagna è caratterizzata da un senso di nobiltà e di serenità e
porta al distacco dalle passioni e dalla cattiveria.Il modello
metropolitano che é stato per decenni al centro delle nostre speranze,
si direbbe che stia collassando. Le nostre città spesso ci sembrano
così inospitali e desolanti da preferire altri orizzonti. Ostia si
allontana alle nostre spalle, fino a diventare invisibile. Dopo un po’
il sole si leva sui campi verdi e neri che fiancheggiano la strada,
dissipando la nebbia con il suo calore. Quando raggiungiamo l’
autostrada, il cielo è ormai azzurro, senza nuvole. La monotonia del
viaggio ci da il tempo di riflettere sull’ormai prossimo election day.
Simonetta ritiene che, in politica, molti esercitino la massima
prudenza, sino a sfiorare la vigliaccheria, evitando di schierarsi,
annusando da dove soffia il vento finché non si è chiaramente profilato
il vincitore, e soltanto allora correndo al suo fianco. Nel frattempo
guido. L’A1 porta da Roma verso settentrione e oltrepassa il Tevere per
due volte, mentre attraversa la Sabina nella zona nord-occidentale.
Raggiungiamo Ponzano Romano, poi l’affluente Aja, che da oriente si
getta nel Tevere; nel paese di Stimigliano, la strada corre su un ponte
e si spinge nella parte più settentrionale del Lazio. Pochi chilometri
sopra il Santuario di Vescovio, una piccola strada si dirama verso
occidente, tornando sul Tevere. Quella strada s’inerpica su una catena
di ripide colline e poi si tuffa in una vallata di vigneti e di
pascoli. In quel punto, annidato sopra una collina, si trova il
sonnolente paese di Collevecchio. Ci fermiamo da un contadino. Il dolce
profumo del fieno e i forti odori di vacche e pecore sono penetranti
nell'aria afosa. Addento un panino e bevo un sorso di vino, scacciando
un’ape che mi ronza intorno. Pranziamo a Poggio Catino, da amici. Per
me giunge l'ora di andarcene. "Bé, allora ci vediamo". Detesto i saluti
lunghi. Andiamo in giro per tutto il pomeriggio, nel frastuono del
silenzio sabino. Collevecchio. Entriamo in paese. All'angolo della
piazza c'é un bar e, incassato nel legno della porta, noto una
piastrella di terracotta, raffigurante la Croce di Sant'Andrea. Il
simbolo di Collevecchio. Una targa sull'architrave da il benvenuto al
locale. L'interno é in penombra, ma fresco. Gli unici clienti sono due
ragazzi, seduti a un tavolo, con lo sguardo fisso nel vuoto. Il barista
si mostra lieto di portarci due aperitivi. Mi guardo intorno e colgo il
mio riflesso in una caratteristica brocca sul bancone. Il mio viso é
stanco, i capelli sono aggrovigliati. Mi avvicino ad un signore anziano
appena entrato nel bar. Con la sua voce stridula sta gridando: "Date
retta a me. La morale esige che il figlio obbedisca al padre e il padre
al proprio padre, ma che razza diordine può esserci in un mondo in cui
alcuni uomini diventano sadici inquinatori e altri pedofili e ladri? Il
mondo é in rovina, perduto, senza speranza di salvezza. Il mondo é
nelle tenebre... " In un istante sono raggiunto da Simonetta, che
esclama "Mario, esci!" spingendomi fuori dalla porta. Acconsento,
sollevando un sopracciglio. Usciti in strada, le lancio uno sguardo. Il
suo sguardo severo si ammorbidisce. Il suo viso si apre in un largo
sorriso mentre mi scompiglia i capelli. "Adesso và a salutare tua zia
Felly e poi raggiugimi da mamma per consumare il pranzo". Mia suocera è un eccellente anfitrione. Mi viene incontro sulla porta di casa e immediatamente mi offre un aperitivo. A cena si rifiuta di discutere di argomenti controversi, sostenendo che ciò può causare indigestione.
Durante il pasto, non parliamo di politica. Il cibo è squisito e
abbondante, il vino eccellente. Lentamente mi rilasso e le mie ansie
scompaiono, finché non mi ritrovo su un divano del giardino. Intorno
a noi il mondo è immerso nelle tenebre e il cielo risplende di stelle.
La luce della luna rischiara le colline basse e ondulate, ammantandole
d’argento. Sono seduto con Simonetta, in una posizione che ci consente
di spaziare lo sguardo verso occidente. All’orizzonte si staglia una
catena di alte colline che segnano il confine della vallata, al di là
della quale scorre il Tevere. Più vicino, alcune luci e una serie di
tetti illuminati dalla luna indicano il paesino di Calvi; a sinistra,
dietro gli alberi, s’intravede la parte più alta della Chiesa dedicata
alla Madonna del rifugio. Da un’unica finestra s’irradia una luce color
ocra pallido. I commenti del telegiornale provenienti dall’interno
della casa di mia suocera si mescolano col frinire dei grilli; ad un
certo punto, sento anche alcune voci che acclamano Veltroni e
Berlusconi, interrotte a intervalli regolari da scoppi di risa e
applausi. Rientriamo. A un certo punto sentiamo bussare. Dalla porta fa capolinea un viso sorridente. Uno zio. Si offre per organizzare la
festa di San Bernardino. Ma...in fin dei conti... il "festarolo" sono
io. Sì, no, certo...Insomma, la cifra è alta. Nella stanza c'è un
attimo di gelo. Improvvisamente provo qualcosa dis trano: un senso di
disagio, che però sembra non appartenere a me, ma a qualcun altro. E'
come quando si ascolta il suono della propria voce: sappiamo che ci
appartiene, eppure ci sembra estranea. Rimango interdetto. Lui mi
guardo stupito, poi scoppia a ridere. "Cos'è, hai paura di spendere 30
mila euro?". Sta scherzando. ovviamente. Ride ancora scuotendo la
testa. Ci salutiamo contenti. Poco prima di mezzanotte mi accorgo che
dall'esterno non giunge più alcun rumore. Socchiudo la porta. Mi
addormento. Finalmente sono tranquillo.
Mario Pulimanti (Lido di Ostia -Roma)
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